Meglio raggiungere che finire
Tengo all’imperfezione. Ce l’ho a cuore. Mi piace che quello che faccio non sia compiuto, finito, definitivo. Tengo e tendo, all’imperfezione. Alla sbavatura, al fuoriuscita dal bordo, al superamento del limite. Imperfetto, dunque sono. E sono, perciò vivo e continuerò a perfezionarmi, sapendo che non riuscirò mai a porre un fine al mio fare perfettibile. E voglio, esigo, pretendo che chiunque collabori col sottoscritto faccia lo stesso: si dia come obiettivo il meglio, ma lavori per raggiungerlo elevandolo all’infinito. Desidero che cambi idea, atteggiamento, punto di vista; che si metta in discussione, che tolga qualcosa e che ci metta qualcos’altro, migliorando; che sbagli e si corregga; che riveda e rifinisca e ristrutturi. Che non si condanni alla determinatezza, alla completezza, allo scopo. Che cambi per de-finire.
La perfezione non ci migliora, ci illude e ci appiattisce. Ci lusinga e ci tronca in asso a tempo zero, ci condanna e ci frustra, per poi abbandonarci all’illusione successiva.
Ci stordisce, ci standardizza e ci insoddisfa. Ci scontra col fallimento. Ci incide. Non ci difende dall’imprevedibile, ci spinge verso lo scontato.
Meglio, allora, raggiungere che finire.