Tutti comunichiamo e dovremmo sapere come farlo
La settimana scorsa mi trovavo fermo in auto in attesa che un’area di sosta si liberasse e mi fosse possibile parcheggiare, segnalando il mio intento con le quattro frecce attive e la retromarcia innestata. Un motociclista, non appena l’altra ha sbloccato l’accesso alle strisce, si è apprestato arrogantemente ad occupare il mio posto (me lo ero conquistato con minuti di noia e pazienza!) lasciandomi a metà manovra e rischiando di prenderlo in pieno. Il centauro in t-shirt è sceso dallo scooterone, ha gesticolato qualcosa nei miei confronti come risposta alla suonatina di clacson ed è entrato nella tabaccheria di fronte. L’uomo aveva stampato sul petto, in bella evidenza, il logo di un’azienda nostra cliente. Ne era, visibilmente, un dipendente.
Lo scooterista tabagista, in un momento di crisi d’astinenza da nicotina e chiaramente in ritardo per l’ufficio, nei miei confronti - di potenziale cliente - ha messo irresponsabilmente a rischio la considerazione dell’azienda per la quale lavora. Nonostante indossasse una divisa da lavoro, ha dato priorità alle proprie necessità (e al proprio aspro e presuntuoso atteggiamento) rispetto all’immagine seria, puntuale e professionale che la sua azienda è riuscita a farsi riconoscere dopo anni di lavoro di branding.
La comunicazione di un’azienda non è (più) una prerogativa dell’ufficio marketing: qualsiasi dipendente dovrebbe all’atto pratico avere premura della reputazione dell’azienda per la quale lavora.
Chiunque agisce, parla o opera a titolo personale o dell’azienda per la quale lavora, in qualsiasi momento dovesse mostrarsi evidente il proprio impegno professionale, sta causando una rivalutazione - positiva o negativa - della reputazione della propria azienda nei confronti dell’interlocutore.
È un esempio concreto, appena esasperato dal mio fastidio personale, ma espressione di un fatto realmente accaduto. Resta la logica: tutti comunichiamo e dovremmo sapere come farlo.